Da mesi è in discussione, tra le 
				polemiche, un progetto di riordino della Scuola Secondaria 
				Superiore a firma della ministra dell'Istruzione Mariastella 
				Gelmini (click 
				per il curriculum vitae). Da destinataria della riforma (in quanto insegnante di 
				Storia dell’Arte e curatrice del sito Alipes. Arte e cultura 
				nella pubblicità, rivolto in particolare ai grafici 
				pubblicitari dei Professionali,
				click) da mesi 
				leggo
				e rileggo, sconfortata, la bozza del progetto: stando all'elenco degli 
				indirizzi scolastici previsti, e delle materie a ciascuno 
				pertinenti, l'insegnamento della storia dell'arte viene 
				decisamente ridimensionato, in una condizione
				prossima all'estinzione.
				Tra gli alunni a cui non si ritiene più necessario illustrare le 
				opere di Fidia, Michelangelo e Picasso ci sono i grafici pubblicitari 
				degli Istituti Professionali: 
				dalle 3 ore settimanali per 5 anni attuali alle 0 ore previste. 
				Zero ore. Nemmeno lo strapuntino di un'ora settimanale o, 
				che so, di un paio d'ore negli ultimi due anni.
				
				
				Tralascio le ovvie considerazioni 
				sull’importanza della disciplina ai fini dell’arricchimento 
				interiore individuale e mi soffermo sul suo, eventuale, valore 
				‘professionalizzante’ nel corso per i grafici. La domanda da cui 
				muovere è: esiste una relazione tra arte e pubblicità tale da 
				giustificare la necessità di una conoscenza della prima per chi 
				si occupa della seconda? La risposta della ministra e degli 
				esperti didatti che la consigliano è, ovviamente, negativa.
				
				Eppure i conti non sembrano tornare. Penso alle mostre che, numerose, affrontano dagli ultimi decenni 
				questo tema, come la sezione nella mostra Werben mit Antike di Basilea nel 1975, 
				le due grandi esposizioni parigine del
				
				1991 e
				
				2000, quelle di New York nel
				1990, di Losanna nel 
				
				
				
				1999, di Strasburgo nel
				
				2007 
				e le due recenti mostre milanesi (2007 
				e 2008). 
				
				Queste solo 
				per rimanere sulle generali, ché altrimenti l’elenco sarebbe 
				assai corposo (ultima 
				in ordine di tempo, la mostra romana 
				
				
				L'arte della pubblicità).
				
				Come 
				interpretare questo proliferare di esposizioni? Beh, la 
				spiegazione c'è ed è evidente. I tedeschi, lo sanno tutti, sono 
				privi di gusto, e quindi non sanno distinguere tra un dipinto e 
				una pagina pubblicitaria (del resto, non discendono forse dai 
				barbari illetterati che distrussero l'impero romano?). I 
				francesi sono degli snob, per questo si interessano di cose 
				marginali, o inconsistenti, solo per il vezzo dell'eccezionalità 
				e del "noi capiamo quello che gli altri non sono in grado di 
				discernere causa ovvia inferiorità intellettuale". Gli 
				americani... lasciamo stare, la cultura non li ha mai sfiorati. Quanto a noi 
				italiani, è risaputo che siamo provinciali e andiamo dietro a 
				tutte le mode, basta che vengano dall'estero.
				
				Qualcuno obietterà che in numerosi studi (per tutti,
				
				Elio Grazioli, 2001 e
				Maria Rosaria Dagostino, 2009) la relazione tra arte e 
				pubblicità e le reciproche 'invasioni di campo' emergono in modo chiarissimo. 
				
				
				C'è la prassi del détournement. C'è l'attività 
				come pubblicitari svolta da molti artisti. E non ci si riferisce 
				solo ai cartellonisti di fine Ottocento come Jules Chéret, 
				Adolph Mucha o Henri de Toulouse-Lautrec, o a quelli italiani 
				della prima metà del Novecento esaltati dal critico Roberto 
				Longhi ("Anni fa, nel sottozero inesorabile dell'arte 
				nostrana, i cartellonisti italiani erano gli unici connazionali 
				che sapessero fare quadri", 1918) e da Massimo Bontempelli 
				("La vita della nuova pittura verrà dal cartellone illustrato", 
				1927). Ma il pensiero va a Magritte, Picasso, Mirò, Chagall, 
				Hopper, Warhol 
				e giù per li rami fino ai giorni nostri, quando la commistione 
				arte-pubblicità è 
				incontrovertibile.
				A questo proposito, la mostra del 2004 
				
				Flirts. Arte e pubblicità, curata da Andreas Hapkemeyer, 
				ha
				ribadito non solo la relazione tutt'altro che frivola tra 
				le due, ma ha sottolineato anche l'influsso capovolto, cioè della pubblicità sull'arte: 
				se prima la pubblicità "prendeva il proprio materiale 
				iconografico da tutti gli ambiti semiotici, dall’arte fino alla 
				religione, sottomettendolo al gioco specifico del sistema della 
				pubblicità dei capovolgimenti di codificazione, delle 
				decontestualizzazioni, sovrapposizioni e remake" (Siegfried 
				J. Schmidt), ora sempre di più è l’arte che guarda ai modelli 
				pubblicitari che, di provata efficacia dal punto di vista 
				comunicativo, offrono strumenti adatti anche a veicolare 
				contenuti artistici. Vale la pena citare in proposito le 
				considerazioni di 
				
				F. 
				Ghelli, 2005 (p. 21): 
				"si assiste a un'osmosi perfetta tra arte e pubblicità: gli 
				artisti (ad esempio graffitisti, performer e artisti 
				concettuali) imitano le modalità di intervento nel tessuto 
				urbano della pubblicità, mentre alcuni pubblicitari lanciano 
				messaggi provocatori degni dell'arte di avanguardia". 
				
				
				E l'esemplare mostra di arte 
				concettuale 
				
				
				How many billboards? Art in stead, a 
				Los Angeles tra febbraio e marzo 2010: 21 opere d'arte di talenti locali proposte su 
				cartelloni pubblicitari (5x2m) tra le grandi avenue come un 
				circuito espositivo.
				Sta di fatto che istituzioni universitarie e museali si ostinano ad 
				analizzare il fenomeno: segnaliamo, in proposito, 
				la lezione 
				
				
				Arte e pubblicità: immaginario e metafora 
				(17 giugno 2010) tenuta da 
				Elio Grazioli 
				nell'ambito del 
				ciclo di conferenze 
				L’attualità dei 
				simboli, 
				nella quale lo 
				studioso si è soffermato sull’intreccio fra arte e pubblicità, 
				immaginario e metafora e sulle reciproche influenze, affinità e 
				differenze dei linguaggi impiegati.
				
				
				Insomma, oggi distinguere tra arte e pubblicità è 
				decisamente 
				arduo. A conferma del fatto che molti ritengono che questa 
				distinzione di ambiti non ha più senso citiamo "la Glue Society, un collettivo di creativi 
				con sede a Sydney e New York, che tra i suoi membri annovera 
				scrittori, designer, artisti, registi e quanti lavorano 
				nell'arte a 360 gradi. La Glue Society non si è mai definita né 
				agenzia pubblicitaria né gruppo artistico, ma collettivo 
				creativo che spazia liberamente tra arte, fotografia, 
				installazione e pubblicità..." (Dagostino).
				
				
				Ciarpame visivo? Culturame? Elitarismo?
				Evidentemente sì, stando agli estensori della riforma della 
				Scuola Secondaria Superiore. Che conseguentemente hanno cassato 
				la Storia dell'Arte dal riformando corso di Grafica 
				Pubblicitaria dei Professionali: i futuri 
				pubblicitari nostrani si formeranno ignorando Fidia, 
				Michelangelo e Picasso, 
				e non avranno gli strumenti per interpretare la civiltà visiva del 
				proprio tempo (i corsi attivati presso i Licei Artistici non 
				saranno che una risicata compensazione, visto il loro esiguo 
				numero). 
				Dovremmo consolarci osservando che analogo destino è riservato 
				ai corsi che si occuperanno di moda (dai quali la storia 
				dell'arte, che veniva insegnata nel 4° e 5° anno per due ore 
				settimanali, scompare) e di turismo (dove l'accorpamento degli 
				indirizzi porta, di fatto, a una drastica riduzione del numero 
				di alunni ai quali verrà impartito tale insegnamento)?
				
				Decisioni dissennate, da cui non si può che dissentire.